A l'aire claro ò vista ploggia dare, ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
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e freda neve rendere calore;
e dolze cose molto amareare,
e de l'amare rendere dolzore;
e dui guerreri in fina pace stare,
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e 'ntra dui amici nascereci errore.
Ed ò vista d'Amor cosa più forte, ch'era feruto e sanòmi ferendo;
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lo foco donde ardea stutò con foco.
La vita che mi dè fue la mia morte; lo foco che mi stinse, ora ne 'ncendo,
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d'amor mi trasse e misemi in su' loco.
Gli argomenti trattati da Jacopo da Lentini sono comuni non solo ad altri testi del medesimo autore, bensì anche a composizioni di scrittori e poeti
successivi.
Nel testo nominante il titolo vi è una differenza notevole da un altro documento del Lentini,"M'aggio posto in core a Dio servire”, per la differenza di tono: mentre nel testo qui proposto si può notare un tono più cupo, seppur con qualche sprazzo di felicità, nell'altro sonetto menzionato l'autore si esprime in maniera più gioiosa e leggera.
La presenza di elementi diversi non esclude la possibilità di somiglianze, come per esempio il topos dello sguardo e la questione religiosa, raccontati in modi molto diversi e con rilevanza differente nei rispettivi sonetti ma presenti nondimeno.
Il topos è un elemento che accomuna molti poeti e molte scuole, tra le quali quella siciliana, toscana e stilnovista, che trattano dell'azione dello sguardo. Lo sguardo viene utilizzato da Cavalcanti, Guinizzelli e persino Dante, tramite la visione di Beatrice all'età di 9 anni.
Il poeta le cui poesie si avvicinano di più a quelle di Jacopo da Lentini è Cavalcanti, con la poesia “Voi che con li occhi mi passaste il core", poiché sia in quella che nel brano proposto vi è un amore che uccide l'amante nonostante gli dia vita nuova.
Nel testo di Cavalcanti l'amore è come una freccia che gli trapassa il cuore e lo porta a perdere il senno mentre nel brano "A l'aire claro ò vista ploggia dare" il possibile inventore del sonetto mostra come ciò che porta alla morte e al peccato non sia l'amore ma la denaturazione della sua purezza a favore del fuoco passionale adultero.
Questa visione negativa o cupa dell'amore si contrappone all'idea stilnovista della donna angelicata salutifera ma anche a quella dello stesso Jacopo da
da Lentini nel sonetto "M'aggio posto in core a Dio servire", nel quale egli sostiene che rifiuterebbe il paradiso pur di stare con la sua donna e vederla in gloria poiché il suo sguardo gli porta consolazione e gioia. Jacopo da Lentini è uno dei primi a utilizzare e trattare questo topos, che verrà ripreso da innumerevoli altri autori, ma uno dei testi che meglio lo spiega è “Chi è questa ch'ogn'om la mira", di Cavalcanti, nel quale il poeta descrive la nascita dell'amore negl'occhi degli uomini mentre una fanciulla passa per strada, aggiungendo anche che ci possono essere casi in cui l'amore si genera senza lo sguardo ma che non sarà equivalente a quello nato negli occhi dell'osservatore.
Nello stesso brano è presente il topos della indicibilità, l'impossibilità di parlare, anch'esso presente in molti autori. Lo sguardo è anche ciò che genera l'amore di Dante per Beatrice dopo un incontro in chiesa all'età di 9 anni, episodio descritto nelle prime pagine della “Vita Nova”, una raccolta, postuma alla sua vita, delle poesie composte per l'amata divise in ordine cronologico.
L'aspetto religioso è invece trattato diversamente da autore ad autore poiché mentre i Francescani, nelle loro lodi, ringraziavano Dio o si flagellavano a causa dei propri peccati, rispettivamente Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi, una volta unificata la religione all'amore si passa ad una visione della donna come mezzo, o tramite, fondamentale per raggiungere la grazia divina.
Infatti di comincia a trattare di donna angelicata che, per l'etimologia della parola "angelo", fungono da messaggere o mezzi per il paradiso, come poi si vedrà in Dante, che viene guidato per il paradiso da Beatrice, soggetto delle sue composizioni.
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