Credo di essermi svegliata. Dopo tanto tempo, mi sono svegliata. Sono giunta ad una
realizzazione.
È iniziato tutto in maniera piuttosto stupida: studiavamo Leopardi e ho notato una frase che
mi piaceva.
No, “piaceva” non è la parola giusta, mi prosciugava l’aria dai polmoni, mi strizzava il cuore
come una spugna. Così un po’ intimidita l’ho detto alla prof, e in quel preciso momento ho
pensato “che cosa stupida, probabilmente non è la frase fatta meglio della poesia”.
Probabilmente era vero, non so, ma a ripensarci a distanza di qualche giorno mi sento
sciocca ad essermi arenata in un tale pensiero. Cosa vuol dire che “non è la frase fatta
meglio”? La cosa mi ha fatto pensare. Pensiero banale del giorno: non leggiamo per
apprezzare il puro esercizio stilistico.
E mi pare ovvio, e fin qui ci siamo. Però allora perché a scuola ci riempiamo la bocca di
tante belle parole, diciamo che leggiamo i classici “perché sono ancora attuali”, e poi tra
un’elencazione per polisindeto e una perifrasi ci dimentichiamo tutto? Perché una poesia la
studiamo, la dissezioniamo peggio di una rana in laboratorio e poi, se recitata da un attore,
rimaniamo confusi e indifferenti? Non sono nessuno per dirlo, ma non credo Leopardi
scrivesse per puro esercizio stilistico. È vero, la letteratura non va ridotta ad una semplice e
tumultuosa tempesta di emozioni, ma come fa la gente a leggere Dante e contare perifrasi
per poi saltare a piè pari “fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e
canoscenza”, o ridurre le ultime due parole ad una semplice dittologia sinonimica?
La verità è che credo che, al giorno d’oggi, tutto deve avere un fine, tutto deve essere
“produttivo”.
Che brutta parola “produttivo”. Non mi piace, c’entra con il prodotto, perché tutto deve
essere prodotto? Perché dobbiamo avere un fine in tutto quello che facciamo? Sto farcendo
questo testo di domande, me ne rendo conto, la tastiera è il mio sac-à-poche. Ma ancora mi
chiedo se non stiamo andando alla deriva, se non stiamo annegando come l’Ulisse di Dante.
Con la scusa di trasformare tutto in prodotto i libri ormai sono semplici beni di consumo, non
conta perché leggi, non conta cosa ne trai, conta solo quanti ne hai letti in un anno, quanti
ne hai comprati. Non so, forse è per quello che non abbiamo più empatia, o forse sto
delirando. Leggiamo solo per consumare qualcosa, i personaggi non ci piacciono se non ci
somigliano, secondo me è per questo che poi attuiamo lo stesso processo con le persone,
vediamo tutto in maniera bidimensionale.
Non so se qualcuno leggerà questo testo, molto distante dai miei passati articoli, ma per una
volta volevo scrivere qualcosa con lo stomaco e non con la testa, con l’augurio che ciò
prenda gli stomaci di chi lo legge, con l’augurio di ricordare a qualcuno di vivere, e non
consumare.
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