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"TUTTO QUELLO CHE VOLEVO"

Matilde Manfredi

Credo che il teatro sia un luogo in cui la realtà e la finzione si mescolano, dove le storie che raccontiamo si intrecciano con quelle che siamo, e spesso ci rivelano verità scomode. Questo è quello che penso, seduta al posto 11 della fila S, mentre inforco gli occhiali e guardo il palco strizzando gli occhi, le luci si affievoliscono sempre di piú e il buio, quasi totale, mi avvolge. Muovo la testa a destra e sinistra mentre appoggio gli avambracci sui braccioli per sistemarmi meglio sulla poltroncina. Lo spettacolo inizia e l’attrice Cinzia Spanò fornisce un'interpretazione magistrale (nel vero senso della parola, ma di questo ne parleremo più avanti), vestendo i panni della giudice Paola di Nicola Travaglini, a cui è dedicato lo spettacolo, che mette in scena una sua sentenza riguardante un famoso caso di prostituzione minorile avvenuto nel quartiere Parioli di Roma.

“Tutto quello che volevo", di Cinzia Spanò, in scena al Teatro Elfo Puccini, non è un semplice spettacolo teatrale: è una riflessione, pungente e irriverente, su un’Italia che ha faticato a fare i conti con se stessa, con la sua giustizia, e con le sue ingiustizie. Lo spettacolo, che attinge dalla realtà, è un'intensa riflessione sul progresso e sulle battaglie che le donne hanno dovuto e devono ancora affrontare per conquistare il diritto alla dignità e alla giustizia. Al centro della trama c'è la vicenda delle "baby squillo", un caso che ha sconvolto l’Italia mentre correva l’anno 2013, in cui delle adolescenti della “Roma-bene”, di 14 e 15 anni, venivano sfruttate per prostituirsi dopo la scuola. Una realtà drammatica che non si limita solo alla sofferenza delle vittime, ma porta con sé una riflessione più ampia su come la giustizia e la società trattino le donne, specialmente quando sono vittime di violenza, colpevolizzando chi ha subito, invece di proteggere e tutelare. Lo spettacolo si fa beffa di questa ipocrisia, mostrando paradossalmente come la vittima venga trasformata in imputata, mentre chi sfrutta e abusa della propria posizione di potere resti spesso impunito. Una realtà amara, no? Nel caso delle baby squillo, (etichetta sbagliatissima usata dalle testate giornalistiche solo per fare più vendite possibili), le adolescenti vittime di violenza erano trattate come se la loro condizione fosse una colpa, una scelta. La macchina della giustizia, invece di fare ciò che era giusto, ha per lungo tempo confuso le acque, facendo diventare le ragazze oggetto di scandalo e di accusa, come se in qualche modo fossero loro a doversi difendere, non i loro aguzzini. Questa distorsione è l’anima dello spettacolo, che non si limita a raccontare la cronaca, ma denuncia come il sistema giuridico non sempre sappia, o voglia, fare giustizia. Questa stessa logica di oppressione e discriminazione delle donne si intreccia con un altro grande tema trattato nello spettacolo: la lotta delle donne per l'accesso alla magistratura. Sono rimasta scioccata quando ho scoperto che fino al 1963 in Italia le donne non potevano diventare magistrate. Un paradosso in un Paese che, pur celebrando la sua democrazia e la sua giustizia, relegava il ruolo delle donne a quello di madri, mogli e, al massimo, segretarie di uomini in giacca e cravatta. L'idea che una donna potesse far parte del sistema giuridico, e addirittura amministrarlo, non solo sembrava impensabile, ma addirittura scandalosa! Le donne, in fondo, erano considerate capaci di tutto tranne che di giudicare in modo oggettivo e imparziale… Un dato che oggi sembra quasi incredibile, ma che all'epoca rappresentava una delle tante barriere che separavano le donne dai posti di potere. La società di allora non riusciva a concepire una donna nei tribunali, come se la magistratura fosse un territorio esclusivamente maschile, adatto solo a uomini in giacca e cravatta. Finalmente nel 1963, con un’importante legge, venne aperta la porta della magistratura alle donne.

Nel contesto di questo cambiamento, lo spettacolo cita anche un episodio storico che segna un altro punto nodale nella lotta per la giustizia in Italia: il primo caso di stupro mandato in onda dalla RAI. Era il 26 aprile 1979, quando la televisione italiana trasmise in seconda serata “Processo per stupro”, un processo che vide la vittima di uno stupro trasformarsi in imputata, un episodio che sollevò un acceso dibattito sulla rappresentazione del crimine e del potere girudico in televisione. La vittima, invece di essere protetta e difesa, venne interrogata come se fosse stata lei a provocare l’abuso, sfiorando i limiti dell'assurdità! Lo spettacolo, con il suo stile incisivo, non risparmia critiche a questo sistema ingiusto, mettendo in evidenza come, ancora oggi, troppo spesso le vittime di violenza vengano trattate come colpevoli E, nonostante le leggi siano cambiate, il sistema che trattava la donna come un essere inferiore sembra non essersi mai completamente sbarazzato dei suoi pregiudizi. Il sipario si chiude, ma la domanda resta: abbiamo davvero fatto progressi? Alla fine, la riflessione che lo spettacolo ci lascia è chiara: la giustizia non è mai davvero giusta se non riesce a proteggere tutti, indipendentemente dal loro sesso, dalla loro età, o dalla loro condizione sociale. E’ quella che riconosce la dignità di ogni individuo, senza fare distinzioni. E, purtroppo, oggi come allora, sembra ancora un obiettivo lontano. Ma il cambiamento parte sempre dal momento in cui decidiamo di alzare la voce e chiedere, senza paura, che venga fatta giustizia. E il sipario, su questa battaglia, non deve mai calare.

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