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LE CONDIZIONI DI SALUTE DELLA LIBERTÀ DI STAMPA

A quattro mani

Articolo di Nicolas Merola e Federico Caminiti


Retrocessione per l’Italia: questo è ciò che emerge  riguardo alla libertà di stampa,  in merito all’anno 2024, dal rapporto di “Reporter Senza Frontiere”.  Non si tratta di sport o prestazioni atletiche, bensì della situazione sul diritto alla libera informazione delle testate giornalistiche italiane. 

Considerando tutti i paesi presi in esame, l’Italia è passata dalla 41° alla 46° posizione, mostrando dunque un notevole peggioramento nonostante la leggera ripresa registrata negli ultimi anni: sotto l’esecutivo del governo tecnico M. Draghi, infatti, il “Bel Paese” raggiunse la 58esima posizione.

Dall’analisi del rapporto emerge chiaramente che lo stato di salute della  libera informazione risulta essere sempre più compromesso. La situazione non è rosea per parecchi paesi europei e le cause di questo declino, denunciate dalla RSF nella sezione che tratta le questioni legate al nostro Paese, sono molteplici.  

Una considerevole influenza negativa, che spesso sfocia nella censura, è causata dalle associazioni mafiose, da sempre interessate a “ripulire” la propria immagine attraverso  qualsiasi canale di informazione, ricorrendo senza troppi scrupoli a mezzi violenti o coercitivi per ottenere favori dalla stampa nazionale. 

Analoghe a queste, anche se in maniera molto più velata, sono le limitazioni operate  dalla classe politica, dato che non pochi giornalisti hanno denunciato di essere stati ostacolati da personaggi politici: questi hanno cercato di minare la loro libertà di espressione in merito all’informazione e stesura di articoli, specialmente quando i temi trattati erano inchieste o procedimenti giudiziari nei quali erano coinvolti i colleghi di partito. 

I due nuclei che hanno portato ad una discesa così clamorosa dell’Italia sono i procedimenti SLAPP e la “legge bavaglio”. Quest’ultima, supportata dal governo italiano, riguarda il divieto di pubblicare e diffondere testi di natura giudiziaria fino alla fine dell’udienza preliminare. 

L’oppressione del panorama mediatico italiano non è di certo paragonabile a quella di un regime totalitario, perché i media presentano centinaia di testate tra quotidiani e settimanali (sia online che cartacei) e la circolazione delle notizie resta piuttosto sviluppata e sufficientemente libera, garantendo una certa diversità di opinioni. A livello televisivo e radiofonico esiste inoltre un bel mix di enti pubblici e privati, i quali coinvolgono punti di vista diversi o addirittura opposti tra loro. 

I campanelli d’allarme finora riscontrati ricadono nel contesto politico, dove è frequente il fenomeno dell’auto-censura da parte dei giornalisti al fine di conformarsi alle linee guida della propria testata ed evitare azioni legali nei propri confronti. Le accuse di diffamazione sono in aumento, così come i procedimenti SLAPP (strategic Lawsuits Against Public Partecipation), ossia denunce di varia natura effettuate da funzionari di Stato al fine di limitare e “spaventare” determinati giornalisti che trattano temi di natura sociale.  

La crisi economica ha inoltre portato le testate giornalistiche ad essere sempre più  dipendenti dagli introiti statali e sussidi pubblici. Questa dipendenza economica nasconde il rischio che i vertici degli enti, consapevoli del proprio potere, impongano di non pubblicare determinati contenuti, pena tagli economici al giornale in questione. Tutto ciò porta ad un giornalismo sempre meno autonomo.

La pandemia da Covid 19 ha poi causato una polarizzazione di molti giornalisti, tutti perfettamente allineati fra loro, con l’obiettivo di cristallizzare certi ideali e comunicare uniformemente gli stessi messaggi al pubblico. Il suddetto progetto di unificazione delle testate giornalistiche per seguire una linea comune tracciata dalla politica (partito dalle informazioni legate al COVID 19) continua anche recentemente su varie questioni di natura geopolitica di maggior rilievo. 

Il rapporto si concentra molto sulla sicurezza dei cronisti, dato che chi indaga sulla criminalità organizzata o sulla corruzione subisce fin troppo spesso minacce o violenza fisica durante lo svolgimento del proprio lavoro, arrivando persino a trovare la propria auto o casa danneggiate.

Dal 6 al 7 maggio si è assistito ad un enorme sciopero generale indetto dall’ Usigrai, al quale ha aderito circa l'80% dei lavoratori della televisione pubblica italiana, la Rai. Il motivo era legato al rifiuto di trasformare questo servizio pubblico in un megafono della propaganda politica a favore del governo in carica. Nulla di simile era mai accaduto nella storia della Rai, quantomeno non con un’adesione così numerosa: le “leggi bavaglio”, la censura di alcuni testi e la strage di cronisti a Gaza sono stati i fattori che hanno indotto lo sciopero nazionale. 

Sempre sulla questione Gaza, invece, occorre specificare un altro particolare tipo di censura, molto più pericoloso nella modifica della realtà dei fatti: la rievocazione strategica della storia.

Ciò non significa che chi non è uno storico non possa comprendere le origini del conflitto; tuttavia il problema sorge quando giornalisti, politici o semplici opinionisti, che si vantano di conoscere la storia, rievocano solo gli episodi che confermano la propria opinione, tralasciando i fatti per loro “scomodi” da menzionare. 

Questo tipo di disinformazione, oltre ad essere immorale, è molto potente, perché in grado di guadagnare facilmente il  consenso della massa. Il risultato è che le piazze si sono riempite di fiumi di persone che, leggendo un articoletto o ascoltando qualche discutibile opinione, si sono schierate per una determinata fazione con la stessa leggerezza con la quale si sceglie la squadra di calcio per cui tifare. 

Ovviamente non sono contro chi manifesta, ma mi sembra assurdo pensare che certe persone, ignare fino al 6 ottobre dell’esistenza della Striscia di Gaza, la  sera del giorno successivo avessero già preso una posizione radicale sul conflitto israeliano-palestinese. 

Il punto è che, quando si parla di questioni delicate come queste, i nostri unici strumenti devono essere i manuali di storia e il personale pensiero critico. 

Manifestare è un diritto costituzionale; sfortunatamente, però, i padri costituenti non specificarono il fatto che bisognasse riflettere attentamente sulla propria causa prima di scendere in piazza per difenderla.

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