Gli anni ‘60 furono un periodo di grande rottura col cinema classico e con l’omologatrice industria cinematografica hollywoodiana: i movimenti del neorealismo e della nouvelle vague rivoluzionarono il panorama del cinema industriale e indipendente a livello globale. È in questa culla rivoluzionaria che vi fu l’ascesa del cinema femminista, una corrente artistica e politica che si avvalse della psicanalisi unita a nuova coscienza storica e sociale per analizzare e criticare una cultura audiovisiva sia maschilista che classista, che rappresentava in maniera distorta e superficiale la sfera femminile.
Ma chi sono le anticipatrici di questo movimento?
Contrariamente a come si potrebbe pensare, non sono poche le donne ad aver ricoperto il ruolo di regista. Alice Guy Blaché fu la prima donna a dirigere un film, “La Fée aux choux" (1896), che passò alla storia come il primo film fantasy e narrativo mai realizzato. Nel 1906 fece uscire “Il risultato del femminismo”, un cortometraggio che inscena una società dove i ruoli di genere tra uomini e donne sono invertiti, mostrando, con un certo umorismo all'avanguardia, la triste realtà femminile e l'illogicità del rifiutare la lotta per l'emancipazione delle donne.
Un’altra figura centrale è Germanie Dulac, ovvero la prima regista femminista. Fin da giovanissima studiò musica, arte e teatro e, in seguito alla morte dei genitori, si trasferí a Parigi, avvicinandosi cosí al socialismo e al femminismo. Qualche anno dopo si sposò e iniziò a scrivere come critica teatrale per la rivista femminista “La Française” e lavorò anche per il giornale femminista radicale “La Founde”. Iniziò presto a interessarsi di fotografia e cinema, realizzando film narrativi femministi per poi spostarsi nel campo dell'avanguardia e del surrealismo, dove fu largamente influente.
Lotte Reiniger, Irene Starewicz, Lois Weber, Tazuko Sakane, Goquan Liu, Mary Ellen Bute, Maya Deren, Sara Kathryn Arledge, Bert Van Tuyle, Esif Shub, Ida Lupino…questi sono solo alcuni nomi di registe che hanno diretto film tra gli anni ‘20 e ‘40. C’è da precisare che non tutte queste direttrici fecero opere con un contenuto puramente femminista: in un mondo dove le donne vengono denigrate e svantaggiate, l’atto di dirigere film diventa conseguenzialmente un atto emancipatorio.
Ricordiamoci che il cinema è un’arma potentissima: attraverso le immagini è possibile veicolare messaggi e molteplici realtà, anche quelle che la “buona società” vuol tenere nascoste. Per questo c’era una reale paura che il movimento femminista si diffondesse attraverso il cinema e che le donne riuscissero ad acquisire sempre più spazio nella società.
Nel ‘34 uscì negli USA il codice Hays, una sorta di Index librorum prohibitorum dove vennero riportate una serie di normative alle quali le case di produzione e registi dovevano attenersi per evitare di subire censure. Ad esempio non erano permesse le scene di parto, di sesso, non potevano esserci temi come la prostituzione, l’adulterio, le coppie fidanzate dovevano finire sempre in matrimonio, non potevano esserci relazioni tra persone di etnia diversa o relazioni omosessuali. Non solo tutto ciò comportò una limitazione della rappresentazione della donna, ma alimentò anche una società sessuofoba.
Il cinema aveva già contribuito a snaturare la realtà femminile inserendo degli archetipi di femme fatale assolutamente idealistici ai quali le donne dovevano allinearsi, tipo la Vamp degli anni '20.
L’arte è lo specchio della società e dell’esperienza umana: in altre parole, l’arte va a pari passo con gli eventi storici, ed è così che i movimenti neo femministi degli anni ‘60 di tutto il mondo provocarono la nascita del cinema femminista, il quale si occupò della produzione di
documentari e film narrativi sulla condizione femminile. Madre fondatrice di questo movimento fu Agnès Varda, importantissima fotografa, sceneggiatrice e regista appartenente alla new wave francese.
I suoi furono tra i primi film a spezzare il male gaze e a proporre un nuovo cinema che adottasse una prospettiva femminile, contrapponendosi al neorealismo e innovando la nouvelle vague, ancora ancorati ad una realtà filtrata da uno sguardo maschile.
In Italia il primo film femminista fu (molto probabilmente) “Giovanna”, mediometraggio che racconta la realtà delle operaie scioperanti, diretto nel 1955 da Gillo Pontecorvo, partigiano che aderì al partito comunista italiano clandestino durante il fascismo, per poi iniziare una carriera nel mondo del cinema diventando prima attore e poi regista.
Il cinema femminista italiano fu però battezzato dalla produzione cinematografica di Cecilia Mangini, sceneggiatrice, scrittrice e prima documentarista donna italiana. Anche lei di orientamento politico comunista, i suoi lavori spaziano tra molteplici cause sociali (dall’occupazione americana in Vietnam alle borgate romane, per esempio) e per questo la realizzazione dei suoi film ebbero non pochi ostacoli. Nel ‘65 uscì “Essere donne”, un documentario che mostrò più a fondo la drammatica realtà delle operaie sfruttate e delle conseguenze nelle loro famiglie. Altre registe femministe italiane attive negli anni ‘60 furono Rosalia Polizzi (“La donna è cambiata, l’Italia deve cambiare”, 1976), Liliana Cavani (“La donna nella resistenza”, 1965), Lina Wertmüller (“Questa volta parliamo di uomini”, 1965), Angela Ricci Lucchi e Annabella Miscuglio (“Processo per stupro”, 1978. Primo processo per stupro trasmesso sulla televisione italiana).
Negli anni ‘70 vi fu il culmine del movimento femminista, di conseguenza vi fu il picco del cinema femminista: i festival cinematografici iniziarono ad includere una categoria apposita per le opere femministe, uscirono i primi saggi sulla feminist film theory, sempre più registi uomini iniziano a realizzare film femministi, ci fu l’esplosione del cinema d’avanguardia femminista (Barbara Hammer, Maria Klonaris & Katarina Thomadaki, Suzan Pitt, Valie Export, Mai Zetterling, Rosa Marta Fernández, Ana Mendieta, Sarah Maldoror, Heiny Srour e tante altre) e questa corrente arrivò in tutto il globo. Consiglio fortemente di approfondire la produzione femminista del cinema mediorientale, che ritengo estremamente importante e interessante, soprattutto la produzione algerina e tunisina.
Cosa abbiamo ereditato dall’esperienza femminista?
È difficile dire se rispetto a 128 anni fa le cose sono cambiate, dato che la globalizzazione ha esteso le zone che sono venute in contatto col cinema, ognuna ha avuto sviluppi, di conseguenza non si può rispondere unanimemente a questa domanda.
Per esempio, l'Italia non ha avuto quasi nessun progresso sul piano pratico perché non è radicata la cultura della feminist film theory (fatta eccezione per Teresa De Laurentis, unica teorica italiana di cui sono a conoscenza ad aver contribuito a questa scuola di pensiero) nel nostro cinema femminista. Noi tendiamo verso una corrente storica ma ci manca l'altra faccia della medaglia, ovvero tutti gli studi della psicanalisi di cui la feminist film theory si avvalse per rafforzare ed affermare le proprie teorie. Anzi, in Italia abbiamo avuto un peggioramento della rappresentazione femminile con l'affermazione della TV nelle case degli italiani.
Il mondo del cinema e dello spettacolo rimane ancora un mondo maschilista e classista: non è ancora stato sdoganato l’essere una donna regista, per non parlare degli abusi economici e sessuali che le donne sono ancora costrette a subire sul posto di lavoro.
La rappresentazione femminile nella televisione italiana è ancora imbarazzante, mentre il cinema sta (finalmente) avendo notevoli cambiamenti. Ringrazio la globalizzazione per aver fatto cadere il mito di Hollywood come icona del cinema, perché se dovessi considerare come punto di riferimento la produzione cinematografica di Tinseltown, mi verrebbe solo da strapparmi i capelli.
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